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massime della Romagna, avrebbe giovato al lavoro; e insieme sarebbe stato fatto un passo alla soluzione della questione che presto o tardi dovrà pure intavolarsi, se cioè nella congerie dei nostri statuti municipali non si possano distinguere dei gruppi o famiglie, secondo le maggiori o minori attinenze degli uni e degli altri. È un'idea che buttiamo là e che qualcuno potrebbe raccogliere fruttuosamente. Lasciando questo, ci resta da. esprimere un dubbio. Il Salvioli, parlando della legislazione riminese in materia di diritto ereditario, parrebbe accennare a una successione per linee giusta i principii del diritto germanico; e noi dubitiamo forte che la successione, quale era intesa dallo statuto, fosse veramente una successione per linee nel senso tecnico della parola. Le stesse legislazioni barbariche, che penetrarono in Italia, compresa la longobarda, non contengono nulla di simile, e se anche qualche libro che va per la maggiore, facendo forza alle leggi, e ai documenti, sostiene il contrario, creda pure che è un errore. Veda dunque il Salvioli se la interpretazione, ch'egli dà o sembra dare, corrisponda veramente al testo, che noi non abbiamo modo di consultare.

Il fallimento nel diritto comune e nella legislazione bancaria della repubblica di Venezia, di ALESSANDRO LATTES, Venezia, tipografia del commercio, 1880.

Gli studi storici del diritto commerciale so..o pur troppo trasandati in Italia, e poco s'è fatto anche in Germania: laonde merita lode l'autore per ciò che ha fatto e pel come lo ha fatto. La legislazione veneta offre un particolare interesse in questa materia dei fallimenti: essa si stacca dalle altre legislazioni, e pare quasi che precorra i tempi. Certo, la mitezza con cui procedeva coi falliti fa un singolare contrasto coi rigori delle altre leggi. Generalmente queste consideravano il fallimento come un reato, presumevano sempre la frode, circondavano la procedura di forme obbrobriose a Venezia invece bisogna scendere sino alla fine del secolo XIV per trovare minacciata una pena ai falliti. Nè la legge veneta restringeva i suoi benefizi ai nazionali soltanto, ma ne metteva a parte anche gli stranieri, a differenza di quanto si praticava in altri Stati; e questo era un altro progresso. L'autore nel suo studio tocca più particolarmente della giurisdizione penale e civile e della procedura, cominciando dalla proclamazione e venendo giù giù al deposito delle scritture, all'arresto del debitore e al sequestro, all'ammissione dei creditori, ai loro capi, al salvocondotto, al concordato, alla liquidazione e ripartizione e al diritto di rivendicazione. Una parte speciale è dedicata ai fallimenti dei banchi veneti. Con ciò non si creda che l'opera del Lattes sia di gran mole; ma le leggi ve

nete vi sono studiate molto accuratamente, e qua e là ci sono opportuni confronti cogli statuti di Padova, Ferrara, Bologna, Firenze, Piacenza, Milano, Bergamo, Cremona e altri. Insomma è un lavoro molto serio scritto con buon metodo e sana critica. Soltanto vorremmo fare una riserva ed esprimere qualche desiderio. L'Autore non accetta che a malincuore la grande mitezza delle leggi venete e la chiama addirittura deplorevole e ci torna su più volte; e non intendiamo affatto, raccomandando il libro, di dividere anche cotesto spirito severo da cui l'autore è animato e come tormentato. Restano i desiderii; e prima, che l'Autore avesse avuto più riguardo, che non ha, all'elemento economico del diritto. Badi bene: la vita economica è come il sustrato del diritto: è su di essa che questo viene innestandosi e innalza il proprio edificio, e a seconda dei vari aspetti di essa anche il diritto si atteggia diversamente e ne segue le evoluzioni. Accostata così alla vita, la stessa lettera della legge non è più una semplice formola, ma qualche cosa che si agita e vive, e solo così può essere veramente compresa. Trattandosi poi di un istituto di diritto commerciale, questo riguardo alla vita economica diventa addirittura una necessità. E desidereremmo anche qualche cosa d'altro: che cioè l'autore, se pur vorrà continuare in simili studi, tenga conto di una fonte, che generalmente si trascura, ed è la giurisprudenza dei tempi. Noi siamo d'avviso che lo studie della nostra storia del diritto nelle età di mezzo riescirà sempre monco, finchè non ci risolviamo una buona volta a mettere mano ai tesori dei vecchi giureperiti e completare coi loro responsi lo studio delle leggi e dei documenti. Perchè il diritto allora, non altrimenti che a' bei tempi di Roma, si moveva e perfezionava col loro mezzo; e anche allora, del pari che a Roma, la communis opinio aveva forza di legge.La interpretazione dei nostri giureconsulti medioevali era tanto efficace quanto la era stata la interpretatio dei grandi prudenti di Roma antica: era principalmente per questa via che i vecchi diritti, compreso il romano, venivano alterandosi e si adattavano alle mutate condizioni dei tempi.

La polizza di carico, di C. VIVANTE. Milano, Hoepli, 1881.

É un altro lavoro a cui la scienza deve fare buon viso. L'Autore premette alcuni cenni sullo sviluppo storico dell' istituto, non molto copiosi, ma quanto basta per dare una chiara idea dell' istituto stesso nella sua evoluzione. Perchè la polizza di carico non si trova nel mondo antico e per buona parte del medio evo e sorge più tardi? E come avvenne che essa fu per lungo tempo considerata come una prova del carico e acquistò poi una vita propria e indipendente fino a diventare uno stromento di circolazione? L'Autore riferisce in proposito le disposizioni di parecchi

statuti, qualche decisione della Rota di Genova, e non manca di far tesoro delle osservazioni dello Stracca, del Targa, del Casaregis, dell'Ansaldo. Più a lungo s'intrattiene șul diritto odierno: parla della forma della polizza e dei rapporti che ne derivano, sia tra il capitano e il caricatore, sia tra il capitano e il possessore della polizza, e dei diritti reali del possessore della polizza sopra le merci viaggianti. Un capitano speciale tratta dei duplicati, un altro della circolazione della polizza di carico, un altro ancora della polizza come documento giustificativo del carico assicurato. Come si rileverà facilmente anche da questa semplice enunciazione, noi ci troviamo di fronte a una compiuta monografia della materia. Aggiungiamo che l'Autore non vi si è accinto alla leggiera; conosce a fondo la letteratura anche straniera e ne fà suo pro, specie degli autori francesi e tedeschi, non altrimenti che delle consuetudini dei nostri porti. Nè retrocede innanzi ad alcuna questione per quanto grave e disputata, ma tutte le approfondisce con eguale amore. Il libro in questione è tanto più importante in quanto si trova spesse volte in contradizione col progetto del nuovo Codice di commercio, che non sempre ha tenuto conto delle massime sancite dalla giurisprudenza e dalle consuetudini marittime, quasi che il contrariarle possa essere senza danno del commercio. L'Autore studia la polizza di carico come un titolo indipendente dal contratto di noleggio, con cui troppo spesso si confonde, e ne fa un titolo autonomo. Questa, si può dire, è l'idea madre a cui s'inspira tutto il libro, e ci pare un'idea sana e pratica. Certo è: i remoti traffici d'oggigiorno rendono necessario di rafforzarne la fede, quanto più quella personale dei contraenti è resa fiacca dalla lontananza; o se più vuol si, bisogna che la sua circolazione tra' commercianti sia completamente sicura: perciò dev'essere affatto autonoma e indipendente in guisa che possa considerarsi come una esatta surrogazione del carico. Un largo studio di legislazione comparata accresce pregio al volume.

Le ragioni successorie dell'assente, Memoria letta nel R. Istituto lombardo di scienze e lettere dall'avv. LUIGI GALLAVRESI.— Milano, tipografia Bernardoni di C. Rebeschini e C., 1880.

Gli studi critici sul codice civile patrio meritano il favore degli studiosi; poichè sebbene la nostra legislazione (come giustamente osserva l'avv. Gallavresi) sia per questa parte una delle migliori e forse quella che più compiutamente consuona coi postulati della scienza e coi bisogni della società moderna, ciò nonostante non è opera assolutamente perfetta, e varie sue disposizioni lasciano assai da desiderare. Giova dunque segnalarne gl'inconvenienti perchè, a suo tempo, vengano corretti. Ed uno tra

i più gravi si verifica effettivamente nell'ardua materia dell'assenza, che è lo stato di coloro i quali sono scomparsi dall'ultimo domicilio o residenza, senza dar notizie di sè. L'assenza presunta diventa dichiarata per sentenza di tribunale dopo tre o sei anni, secondo che la persona di cui trattasi abbia lasciato o no procuratore Scorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, gli eredi legittimi o testamentari possono venire immessi nel possesso temporaneo dei beni dell'assente. Essi peraltro devono farne l'inventario e dare cauzione; nè hanno facoltà di compiere, senza autorizzazione giudiziale, alcun atto eccedente la semplice amministrazione. Ma non così, quando si apra una successione a cui l'assente medesimo sarebbe chiamato. Allora, coloro ai quali in sua mancanza essa è devoluta, devono soltanto procedere all' inventario delle cose mobili ed immobili. Il codice non richiede di più (art. 43). E questa sembra, a buon dritto, al nostro A., una troppo scarsa garanzia, di fronte al possibile ritorno dell'assente. Vero è che il codice napoleonico non impone nemmeno tale obbligo; ma il legislatore italiano, che si è modellato su tale esemplare, avrebbe dovuto ravvisare e scansare il pericolo di favorire una spoliazione di quei diritti che pur volle solennemente riserbati col successivo art. 44. Tanto più poi dacchè l'art. 43 può applicarsi, secondo la giurisprudenza, anche durante l'assenza semplicemente presunta. L'avv. Gallavresi propone invece che si prescrivano cautele simili a quelle adottate per la successione stessa dell'assente, e ribatte l'argomento della differenza che (per una esagerata illazione della massima le mort saisit le vif) si pretende stabilire fra i due ordini di successori. Il criterio che domina la materia è la conciliazione delle ragioni dell' assenza con quelle di chi può aver diritti dipendenti dalla sua morte, che rimane sempre puramente eventuale; e a questa massima non risponde al certo la disposizione censurata dall'A. della presente Memoria; la quale, al pari degli altri suoi lavori della stessa indole, va lodata per chiarezza d'esposizione, forza di ragionamento e larghezza di dottrina.

PROF. FR. PROTONOTARI, Direttore

DAVID MARCHIONNI, Responsabile.

LA CONVERSIONE LETTERARIA DI G. LEOPARDI

E LA SUA CANTICA GIOVANILE.

(Continuazione e fine.

V. fascicolo del 1° novembre).

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XIV.

Il 21 marzo del 1817 la cantica, di cui parliamo, era già in mano del tipografo milanese Antonio Fortunato Stella. «Ho scritto allo Stella (così il Leopardi in una lettera spedita sotto quella data al Giordani) che le mandi un mio manoscritto. Vorrei che lo esaminasse, e prima di tutto mi dicesse se le par buono per le fiamme, alle quali io lo consegnerei di buon cuore immantinente. Importa conoscere, anche a schiarimento di cose che discorreremo più oltre, ciò che il Giordani stesso gli rispondeva su questo lavoro nella lettera del 15 aprile seguente: «Ho letto la sua cantica, la quale renderò allo Stella, e a V. S. ne parlerò sinceramente come a me stesso. Primieramente mi ha molto contristato un timore che la sua delicata complessione abbia patito dal soverchio delle fatiche, e le dia quelle tante malinconie. Le ripeto dunque le preghiere fatte nella mia ultima, e le ripeto con fervidissima istanza: che pensi di acquistar vigore al corpo, senza il qual vigore non si può gran viaggio fare negli studî; pensi a procurarsi robustezza e giocondità di spiriti e prontezza di umori con gli esercizî corporali e con divertimenti. È da filosofo non amar la vita e non temere la morte più del giusto; ma fissarsi nel pensier continuo della morte cotanto spazio, quanto ne

1 LEOPARDI, Epist., vol. I, pag. 17: lett. 9.

Vol. XXIV, Serie II. 15 Novembre 1880

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