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della gloria, fino all'estremo della vita, v'imperò sempre tiranno. Esso poi fu non pure l'ultimo, ma anche il primo; l'amore propriamente detto venne secondo. Difatti, parlando il Leopardi nell' Elegia 1, scritta il 1817, del suo primo amore, accenna che aveva già nel cuore quell'altra ferventissima passione:

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In un'altra occasione, ragionando degli amori di Giacomo Leopardi, su l'asserzione della contessa Vittoria Lazzari, figlia primogenita di Geltrude Cassi, io scrissi che quel primo amore era seguíto nel decembre del 1816. Ma, dopo alcune osservazioni di Licurgo Pieretti, avendo fatto pregar novamente la detta signora a ripensare se mai la gita sua a Recanati nel monastero dell'Assunta, piuttosto che in decembre, fosse seguita nel precedente settembre, ella cortesemente ha risposto che, richiamate le memorie di quell'andata, conferma le particolarità antecedentemente narrate; ma, quanto al tempo, dall'esserle tornato a mente che in quel viaggio faceva uso tuttora di abiti leggeri più da estate che da inverno, crede di potere oggi assicurare che il viaggio medesimo fosse seguito di settembre; e rammenta inoltre che, prima di condursi in Recanati, s'era soffermata con la madre a Loreto per la festa della Madonna. Or dunque si può avere come accertato definitivamente che l'amore di Giacomo per Geltrude Cassi si accendesse verso la metà di quel mese nel 1816; poichè la festa mentovata ricorre appunto il giorno 8 settembre. Che poi sin d'allora la passione della gloria lo avesse già tutto preso, è confermato non solo dalla surriferita testimonianza del Leopardi stesso, ma da altre ancora.

Fino da quel settembre egli avea mandato allo Stella in Milano la traduzione del secondo libro dell' Eneide per la stampa ; e poichè questa andava in lungo, il 24 gennajo del 1817 così scri

LEOPARDI, Opere, vol. I, pag. 41, canto X, Il Primo Amore.

Amori di Giacomo Leopardi: nel Fanfulla della Domenica, 4 aprile 1880. 3 Rassegna Settimanale, Roma, 18 Aprile 1880.

veva al suddetto tipografo: « La prego a darmi qualche buona nuova del secondo libro della Eneide, speditole il settembre passato. Condoni questa importunità a chi non ha altri pensieri, nė piaceri in tutta quanta la vita che questi, e tra la speranza e il timore per la sorte de' suoi figli prova tutti i furori e le smanie dell'impazienza. » Anche dal tenore di queste parole mi sembra confermata per indiretto la verità di ciò che mi diceva Carlo Lopardi; che cioè quel primo amore di Giacomo durò assai poco. Dopo tre mesi nel suo cuore era tornata a signoreggiar solo la gloria; il fervidissimo affetto per Geltrude Cassi non era che una reminiscenza, onde scrivendo verso quel tempo le due Elegie sul medesimo, con tutta verità cominciava la prima così:

<< Tornami a mente il dì che la battaglia

D'amor sentii la prima volta. . .

Ma una testimonianza anche più antica si può veder nel proemio al saggio di traduzione dell' Odissea: « M' inginocchio a tutti i letterati d'Italia per supplicarli a comunicarmi il loro parere sopra questo saggio. » 3 Donde potevano proromper queste parole se non da un'anima tutta invasata dell' amor della gloria? E allora egli non aveva per anco finiti diciott'anni.

XI.

Tale era fra il 1815 e il 1816 lo stato della mente e dell'animo di Giacomo Leopardi, tale la nuova direzione negli studî letterarî, ne'quali gli serviva di pungolo e di sostegno« uno smoderato insolente desiderio di gloria. Sentendo egli fin d'allora la potenza grandissima del suo ingegno, confidava, e a ragione, di poter salire alle più alte cime dell' eccellenza e di farsi immortale. Ma verso quel tempo medesimo gli sopravvenne la terribile calamità, che lo rese infelicissimo per tutta la vita. Per lo

1 LEOPARDI, Epist., vol. I, pag. 10: lett. 5.
LEOPARDI, Opere, vol. I, pag. 39: canto X.

3 LEOPARDI, Opere, vol. III, pag, 80.

LEOPARDI, Epist., Vol I, pag 14: lett. 9 (21 marzo 1817). L'Aulard afferma che il Leopardi nou pretendeva la gloria sfolgorante dei poeti nazionali, e a questa non aveva diritto; ed afferma inoltre che « non amava la gloria!» Non si crederebbe, se non fosse scritto a pagg. 30 e 31 del libro citato più addietro.

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addietro egli era stato sanissimo e diritto della persona. «Sanissimo e diritto come sono stato sempre io, » diceva a me nel settembre del 1876 Carlo Leopardi suo fratello. « Quella gibbosità se la causò egli stesso con gli studî faticosissimi e immoderati, che fece per tanti anni, col maneggiare que' grossi volumi, che ancora sono là nella biblioteca di casa, e con lo starvi incurvato sopra. Dopo che il povero Giacomo divenne così gibboso, in famiglia da tutti noi e specialmente dai genitori si desiderava di mandarlo per la via ecclesiastica a riguardo di quel difetto; perchè l'abito ecclesiastico con quella ferrajolina di seta, che sopra le spalle sta sempre un po' sollevata, e al più lieve spirar d'aria si gonfia, veniva a rendere la sua deformità assai meno appariscente. » Avendogli io domandato in che tempo precisamente fosse incòlta a Giacomo si fatta calamità, « Come vuol ch'io ricordi, mi disse, il tempo preciso, essendo già passati una sessantina d'anni? E poi non fu cosa, che seguisse in un giorno; ma si effettuò lentamente. È certo beusi che al tempo del primo amore» (questo appunto era in quel momento il soggetto del nostro discorso) « il poveretto era già bruttamente deformato; come poi restò sempre; poichè la sua era gobba reale. » Queste ultime parole l'onorando vecchio le accompagnò con un gesto significativo sul petto, atteggiando nell'atto stesso il labbro a quel solito suo lieve e delicato sorriso, sotto il quale traspariva la profonda mestizia, che tale ricordo gli avea suscitata.

Dacchè il primo amore rapportasi indubitatamente al settembre del 1816, si può dunque affermare con sicurezza che al povero Leopardi la gentile persona in quel tempo s'era già guasta. Il fatto stesso ed il tempo si desumono altresì dalla memoranda corrispondenza fra il giovinetto recanatese e il Giordani. Prima di tutto è da ricordare che questi nella lettera del giorno di pasqua (6 aprile) 1817, mostra di essere già informato dell'infortunio di lui, là dove gli dice: « Pensando io spessissimo con vero stupore e molta tenerezza al sapere di V. S., sono entrato in un timore, nel quale pur troppo lo Stella mi ha poi confermato. Ho dunque temuto che V. S. abbia dalla natura una complessione delicata, senza che non potrebbe avere così

Carlo Leopardi a me non accennò l'altra causa dell' infelicità fisica di Giacomo, fatta di pubblica ragione dal Viani nella sua Appendice all' Epistolario ecc., pag. xxxiii; ma l'una non esclude l'altra, anzi si rafforzano scambierolmente.

fino ingegno; ed ho temuto che a questa delicatezza abbia V. S. poco rispetto con un soverchio di fatiche. Per quanto ella ha di caro al mondo, contino mio, e per questi medesimi studî, ne' quali è innamorato, si lasci pregare e supplicare da un suo affezionatissimo; per carità di sè e di tutti quelli che già l'anımirano, e tanto aspettano da lei, riconosca e senta e osservi là necessità di moderarsi nello studio. Chi vuol esser liberale, non dee gittare il patrimonio e distruggere i mezzi della liberalità. Poichè ella si nobilmente si è dedicato agli studî, pensi a poter sempre studiare. Ma s'ella si rovina, come potrà poi continuare? e quando non potrà più studiare, come potrà sopportare la vita? Il soverchio studio rintuzza l'ingegno e lo fiacca; distrugge la sanità. S'ella in questa giovinezza studia più di sei ore al giorno, mi creda che fa male e male grande. Ella verrà presto in cattivo stato. La supplico dunque ad interrompere gli studî con quegli esercizî, che, dando vigore al corpo, svegliano la mente: passeggiare, cavalcare, schermire, nuotare, ballare, giocare al pallone, a palla e maglio. L'incessante studio rovina lo stomaco, rovina la testa, cresce la malinconia, scema le forze della mente. Non cesserò mai di pregarla che in questa tenera giovinezza studi in maniera, che non si tolga di poter proseguire. » Ora come si potrebbe credere che il Giordani facesse al giovinetto questa paterna esortazione, se non avesse saputo realmente lo stato deplorabile della sua salute? Ma donde lo aveva saputo? Lo accenna egli stesso: dal tipografo milanese Antonio Stella. E poichè questi era stato a Recanati nell'agosto del 1816, e colà avea veduto il Leopardi e discorso con lui, si deve tenere per certo che fino da quel tempo l'infelice giovane si fosse già rovinato; il che confermando a capello la data, a cui accennava Carlo Leopardi, chiarisce inoltre che la gibbosità un mese prima di quell'amore era già avvenuta. Una confessione del proprio stato miserando si ha nella risposta, che alle parole del Giordani faceva per entro alla lettera del 30 aprile 1817 il Leopardi medesimo : << Ella mi raccomanda la temperanza nello studio con tanto calore e come cosa che le prema tanto, che io vorrei poterle mostraré il cuor mio, perchè vedesse gli affetti, che v' ha destati la lettura delle sue parole; i quali, se il cuore non muta forma e materia,

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Epist., vol. II, pag. 278-79: lett. 3 del Giordani.

LEOPARDI, Epist., vol. I, pag 4: lett. 2 (31 agosto 1816).

non periranno mai, certo non mai. E per rispondere, come posso, a tanta amorevolezza, dirolle che veramente la mia complessione non è debole, ma debolissima, e non istarò a negarle che ella si sia un po' risentita delle fatiche, che le ho fatto portare per sei anni. Ora però le ho moderate assaissimo; non istudio più di sei ore il giorno, spessissimo meno; non iscrivo quasi niente; fo la mia lettura regolata dei classici delle tre lingue in volumi di piccola forma, che si portano in mano agevolmente, si che studio quasi sempre all'uso dei peripatetici, e, quod maximum dictu est, sopporto spesso per molte e molte ore l'orribile supplizio di stare con le mani alla cintola. » 2 Ma del deperimento del Leopardi il Giordani per le relazioni dello Stella era si impensierito, che in più altre lettere dell'anno stesso continuò a raccomandargli la cura della salute. A una delle quali così rispondeva in data 14 luglio il giovinetto: «Speranze non fondate sopra di me, ed oltrechè non son terreno per questo non vogliate far della mia vita più capitale che non me ne fo io, che ogni giorno lo conto per guadagnato. »

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Se non che il passo più decisivo per determinare il tempo della rovina della sua salute è quello già citato più addietro, e che qui importa ripetere: «Io (diceva nella lettera 30 maggio 1817 & Pietro Giordani) sono andato un pezzo in traccia della erudizione più pellegrina e recondita, e dai 13 anni ai 17 ho dato dentro a questo studio profondamente, tantochè ho scritto da sei a sette tomi non piccoli sopra cose erudite (la qual fatica appunto è quella che mi ha rovinato). » Ecco dunque con la causa anche il tempo preciso; la causa sono gli studî filologici di quattro anni, il tempo preciso è l'estate del 1815, in cui egli finiva diciasst' anni, e cominciava la sua conversione lette

Qui vi è indirettamerte la conferma di ciò che mi diceva Carlo Leopardi, che cioè a Giacomo avevano recato pregiudizio per la salute non solo le straordinarie fatiche, ina anche il maneggiar di que'grossi volumi e lo starvi incurvato Sopra.

2 LEOPARDI, Epist., vol I, pag. 20: lett. 12.

LEOPARDI, Epist., vol. II: lettere del Giordani, 5 e 7 (il dì dell'Ascensione, cioè 13 maggio, e 10 giugno 1817).

LEOPARDI, Epist., vol. I, pag. 46: lett. 17.

Un'altra volta ha detto che in tali studi eccessivi durò sei anni (Epistol., vol I, pag 20. lett. 12: 30 aprile 1817), e due altre volte sette anni (Ivi, pag. 86: lett. 36; pag. 467: lett. 301); ma poichè il termine di studi siffatti è sempre l'anno diciassette dell'età sua, qui ha nominato solo gli ultimi quattro, perchè in quelli, fece le maggiori fatiche, e scrisse i sei a sette piccoli; onde la salute sua ebbe irreparabile danno.

tomi non

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