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raria. A questa data serve di riprova ciò che è scritto poco più oltre nella stessa lettera succitata: « L'inno (a Nettuno) e le note col resto l'ho scritto appunto un anno fa; in questi mesi non avrei potuto reggere a quella fatica. » Dunque dal giugno del 1816 in poi il deperimento della salute giunse al colmo; e con esso la gibbosità, di cui nell'agosto del medesimo anno fu testimonio oculare il tipografo Stella.

XII.

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Si continui questa dolente storia con le parole sue stesse: << Io mi sono rovinato (diceva egli al Giordani nella lettera 2 marzo 1818) con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s'andava formando, e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l'aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran parte dell' uomo, che è la sola a cui guardano i più, e coi più bisogna conversare in questo mondo; e non solamente i più, ma chicchessia è costretto a desiderare che la virtù non sia senza qualche ornamento esteriore, e, trovandonela nuda affatto, s'attrista, e per forza di natura, che nessuna sapienza può vincere, quasi non ha coraggio d'amare quel virtuoso, in cui niente è bello, fuorchè l'anima. » Indi consegui quella sua ostinata, nera, orrenda, barbara malinconia, » che fu precorritrice alla seconda conversione di lui, alla conversione filosofica. «So ben io qual è (egli diceva disfogandosi col suo amico), e l'ho provata, ma ora non la provo più, quella dolce malinconia, che partorisce le belle cose, più dolce dell'allegria, la quale, se mi è permesso di dir così, è come il crepuscolo, dove questa è notte fittissima e orribile, è veleno, com' ella dice, che distrugge le forze del corpo e dello spirito. Ora come andarne libero non facendo altro che pensare, e vivendo di pensieri senza una distrazione al mondo? E come fare che cessi l'effetto se dura la causa? Che parla ella di divertimenti? Unico divertimento in Recanati è lo studio; unico divertimento è quello che mi ammazza; tutto il resto è noja. So che la noja può farmi manco male che la fa

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tica, e però spesso mi piglio la noja, ma questa mi cresce, com'è naturale, la malinconia; e quand'io ho avuta la disgrazia di conversare con questa gente, che succede di rado, torno pieno di tristissimi pensieri agli studî miei, o mi vo covando in mente e ruminando quella nerissima materia. Non m'è possibile rimediare a questo, nè fare che la mia salute debolissima non si rovini, senza uscire di un luogo, che ha dato origine al male, e lo fomenta e l'accresce ogni di più, e a chi pensa non concede nessun ricreamento. Veggo ben io che per poter continuare gli studî bisogna interromperli tratto tratto e darsi un poco a quelle cose che chiamano mondane; ma per far questo io voglio un mondo che m'alletti e mi sorrida, un mondo che splenda (sia pure di luce falsa), ed abbia tanta forza da farmi dimenticare per qualche momento quello che soprattutto mi sta a cuore; non un mondo, che mi faccia dare indietro a prima giunta, e mi sconvolga lo stomaco, e mi muova la rabbia, e m'attristi, e mi forzi di ricorrere, per consolarmi, a quello da cui volea fuggire. » Nella lettera del 14 luglio dello stesso anno 1817 chiamò la sua vita « per più cagioni da qualche tempo infelicissima e orrenda. »

Ma il suo stato morale è ritratto con la maggiore pienezza e precisione nella seguente dell' 8 agosto: Mi fa infelice primieramente l'assenza della salute....... L'altra cosa che mi fa infelice è il pensiero. Io credo che voi sappiate, ma spero che non abbiate provato, in che modo il pensiero possa cruciare e martirizzare una persona, che pensi alquanto diversamente dagli altri.... A me il pensiero ha dato per lunghissimo tempo, e dà tali martirî.... che mi ha pregiudicato evidentemente, e m'ucciderà, se io prima non muterò condizione. » Che questi martiri del pensiero lo tormentassero davvero, com'egli qui accenna, da molto tempo, ne abbiamo un documento nella sua stessa cantica giovanile, che si rapporta al 1816, là dove egli dice:

E sento del pensier l'immenso pondo,

3

Si che vol labbro muto e 'l viso smorto,
E quasi mio dolor più non ascondo. »

LEOPARDI, Epist., Vol. I, pagg. 23-25: lett. 12.
LEOPARDI, Epist., Vol. 1, pagg. 46: lett. 17.

3 LEOPARDI, Epist., Vol. I, pagg. 48, 49: lett. 19. Vedi anche pag. 53: lett. 20 (11 agoste 1817).

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Appressamento della Morte, Canto V, pag. 157.

Questi martirî, che probabilmente eran cominciati allorchè principiava il deperimento della sua salute, continuarono poi a tormentarlo sempre. Bello è vedere dalle lettere di quella zia Ferdinanda (nuovo e per noi interessantissimo personaggio della famiglia Leopardi, che mercè la pubblicazione di Giuseppe Piergili rivive fra i parenti che carteggiarono con Giacomo) come l'infelice giovane, giudicando lei sola degna di elevarsi all'altezza dei suoi pensieri e di comprenderlo, confidasse a lei i suoi segreti, e la donna affettuosa e saggia s'argomentasse di consolarlo. Nella lettera del 18 decembre 1819 essa, dopo avere rimproverato al nipote l'estrema malinconia e la proposizione ch'egli le aveva scritta, essere cioè opera da savio porre un argine alla ragione, che è il supplizio della nostra vita, soggiunge: « No, caro Giacomo, io non mi accordo con voi in questo; la malinconia è ancora effetto di un alterato fisico; e per questo rimediateci con procurarvi qualche sollievo, ancorchè a principio troviate nel sollievo medesimo della noja. A poco a poco ci assueffacciamo a scordarci de' nostri mali col trascurarli o con il lasciare di coltivarne continuamente l'imagine; è la ragione poi quella che deve a ciò persuaderci, e di essa ci dobbiamo prevalere per felicitarci, non per il contrario. Ma egli aveva già presa tutt'altra via; chè a quel tempo la sua conversione filosofica era quasi compiuta.

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XIII.

Nei due volumi delle Opere di Giacomo Leopardi, pubblicate da Antonio Ranieri secondo l'ultimo intendimento dell'autore, e segnatamente nei canti il Consalvo,le Ricordanze ed Amore e Morte, come pure nel Dialogo di Tristano e di un Amico, v' è espresso un desiderio profondo della morte, invocata sempre come un gran beneficio. E poichè le Opere succitate sono le più lette, quindi è che generalmente si crede che l'infelice Recanatese desiderasse davvero la morte, come la invocava. Anche nelle lettere appariscono di tanto in tanto i medesimi sentimenti; ed è soprattutto notabile ciò che in tal proposito scriveva al padre il 3 luglio 1832

1 Lettere scritte a Giacomo Leopardi dai suoi parenti ecc., pag. 4.

da Firenze;

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che ad ogni leggera speranza di pericolo (di morte) vicino o lontano gli brillava il cuore dall' allegrezza. 1» Come si accorda ciò con quello che racconta Antonio Ranieri? l'infelicissimo amico suo sentire della morte una paura eccessiva, tanto che nel tempo del colèra, dimorando insieme fuori di Napoli in un villino presso Torre Annunziata, aveva a lui espressamente ordinato che ogni volta che andava in città al ritorno si disinfettasse. A me pare tutto ciò assai naturale, e non trovo fra l'una cosa e l'altra veruna contradizione. Chi non ha veduto le persone travagliate da malattie, segnatamente lunghe, dolorose e riconosciute incurabili, invocare la morte? Ma perciò non la paventano egualmente? Il dolore le spinge a desiderarla, l'innato abborrimento alla propria distruzione le fa temere. E se quell'abborrimento in effetto il Leopardi, non ostante l'invocar che faceva la morte, nol potea vincere neppure su l'ultimo della vita, dopo vent'anni da che duravano le sue pene, quanto più vivo non doveva sentirne il ribrezzo nel principio di quelle? Difatti nella lettera 8 agosto 1817 scriveva al Giordani: « Mi fa infelice primieramente l'assenza della salute, perchè, oltrechè io non sono quel filosofo che non mi curi della vita, mi vedo forzato a star lontano dall'amor mio, che è lo studio. » 3 E perchè il Giordani, sempre vivamente commosso e trepidante per la vita del giovinetto, frattanto in data 27 luglio tornava a fargli le solite raccomandazioni, conchiudendo: Non mi regge il cuore di restarvi amico, se non attendete, ma da senno, a conservarvi; » Giacomo rispondera: «Non temete, caro Giordani, chè v'ubbidisco; siatene sicuro. Oh credete forse che non vi ami? o che non mi ami? E se non lo credete, perchè volete credere che mi ostini in far quello che mi nocerebbe? E che prova ne avete? Stando in Recanati, e come ci sto io, niente mi può consolare della privazione degli studî; e nondimeno, perchè vedo che mi bisogna stare un pezzo senza studiare e per ubbidire a voi, non istudio, e così fo da molto tempo. Sappiate che sono sei mesi che io non iscrivo, e leggo così poco che si può dir niente. » 5

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Rappresentiamoci il giovane infelicissimo nel lagrimevole tempo

! LEOPARDI, Epist, Vol. II, pag. 195: lett. 509. RANIERI, Sette anni di sodalizio, ecc., pagg. 54, 55.

3 LEOPARDI, Epist., vol. I, pag. 48: lett. 19.

LEOPARDI, Epist., vol. II, pag. 297: lett. 10 del Giordani.

5 LEOPARDI, Epist., vol. I, pag. 51, 52; lett. 20 (11 ag. 1817).

che si vide guastare orribilmente la bella persona. Quel terribile disformamento non dovea produrgli nell'animo, oltre un' ineffabile tristezza, anche il timore di una morte prossima e senza gloria? Da questo pensiero, che accampatosi nella sua mente vi restò fisso e dominatore, egli trasse materia per un'opera d'arte, che è nel tempo stesso un documento della sua recente conversione letteraria e una storia del suo stato fisico e morale. Quest'opera è la cantica, che s'intitola Appressamento della Morte. L'argomento di essa dunque è tutto intimo al poeta; egli n'è il soggetto e il protagonista.

(Continua)

GIOVANNI MESTICA.

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